2.04.2010

La mia Londra e i bamboccioni

Beppe Severgnini


Mezz’ora in tondo sopra l’aeroporto, bagagli veloci, trasporti cervellotici, cassiere lente, teatri strapieni (Enron, wow!), calciatori priapici (Chelsea, urca!), gabbiani eccitati, poltrone sensuali, inverni pavidi senza neppure il coraggio del gelo: che bello tornare a Londra.
Sono qui per festeggiare la 100° Pizza Italians (venerdì) e i vent’anni del mio primo libro, Inglesi (ieri sera e stasera). Sentirsi un reduce è il sogno segreto di ogni italiano, e non faccio eccezione. Anzi: sono felice di provare questa sensazione a cinquant’anni, davanti ad almeno altrettanti ascoltatori. Poi gli anni aumentano e gli ascoltatori diminuiscono; anzi, tendono a darsi alla fuga. Perciò è bene muoversi per tempo. Londra è la città al mondo, dopo Crema, in cui ho vissuto più a lungo; e tra le due, come sapete, c’è differenza. Sono arrivato per Il Giornale di Montanelli, avevo 27 anni. Dividevo la casa con una scultrice inglese e un riparatore di tappeti egiziano, immerso in fumi sospetti fin dal mattino. Vivevo a Rudloe Road, Clapham South, stessa strada del cantante Bob Geldof. Ogni tanto lo vedevo passare: era l’unico più spettinato di me. Quando l’ambasciatore Bottai ha invitato in residenza a Grosvenor Square i corrispondenti dei giornali italiani, sulla porta mi hanno guardato male: dove hai trovato questo invito? Dov’è tuo padre?
L’anno dopo mi sono trasferito in un seminterrato a Notting Hill. Era il 1985, quattordici anni prima del film omonimo. Un giorno ho scoperto d’abitare nell’ultima dimora conosciuta di Jimi Hendrix (20, Lansdowne Crescent W11): un destino rock di cui andavo orgoglioso. Quando i miei sono venuti a trovarmi, per poco mia madre non scoppia in lacrime: «Mio figlio vive in un sottoscala!». Mamma, le spiegavo: non è un sottoscala, è un basement. Ma lei vedeva la spazzatura davanti alla porta, e non era convinta. Mi sono abituato in fretta alla situazione, e ho cominciato addirittura ad apprezzarla. Quando vedevo molti sacchetti di plastica con l'insegna del vicino supermarket, sapevo che di sopra ci sarebbe stato un party. Quando trovavo molte bottiglie vuote, sapevo che c'era stato un party. Non ero mai invitato, ma mi sentivo parte della famiglia. La posizione interrata mi permetteva di studiare altre strabilianti abitudini inglesi, oltre al vizio diffuso di scolare tutto quello che c’era in casa, con l’eccezione del liquido per i piatti (che non risciacquavano). Perché le ragazze, d’inverno, non portavano le calze? Non avevano freddo? Certo che ce l’avevano. Lo dimostravano le gambe blu, peraltro intonate al rosso delle scarpe e al bianco delle caviglie: una combinazione patriottica, ma poco estetica. Forse pensavano d’essere sexy? Impossibile: gli Avatar erano ancora là da venire. So che in Italia, in questi giorni, si parla molto di bamboccioni, e qualcuno li difende, sostenendo che sono un simbolo dell’astuzia e della praticità italiana (vivere vezzeggiati fino a quarant’anni!). Io dico: mamme e papà, cacciateli di casa. Non domani: stasera. Altrimenti li derubate di ricordi come i miei.

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